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Non sempre si raggiunge la terra promessa del sinthomo. Il caso Rimbaud

La corrispondenza di Rimbaud ci permette di affacciarci sull’intimità di una vita tormentata dalla sofferenza, che non conobbe mai quiete e che culmina in un’atroce morte, corollario di un’esistenza sconquassata dalla follia. Com’è abitudine in buona parte dei geni creatori, le iniziali prove del suo superbo talento si accompagnarono di segni che la posterità rivestì di una patina romantica e letteraria, ma che senza dubbi rivelavano il dolore di un’anima frantumata dall’irragionevolezza.

Spinto a fuggire da una madre inquietante, che nelle sue carte nomina ironicamente come “The mother”, a sedici anni intraprende la sua prima fuga, sostenuta dall’astio che gli produce la provinciale mediocrità in cui abita. A partire da ciò, la sua vita si convertirà in un’interminabile successione di fughe, in una dolorosa ricerca di un al di là senza fine, dove la poesia e la scrittura saranno per lui gli unici fili di sutura con i quali cercare di frenare l’emorragia soggettiva della sua miserabile esistenza.

Una stagione all’inferno, una delle sue maggiori opere, riflette molto bene l’orrore claustrofobico che l’ambiente familiare gli produceva, nel quale spiccano l’abbandono paterno e la durezza implacabile di una madre il cui profilo psicologico può essere ricostruito attraverso le lettere che sua figlia Isabel le indirizza, sorella del poeta, e che compaiono nell’appendice dell’epistolario.

La tremenda coerenza della vita di Rimbaud volle che la sua fase all’inferno non si limitasse ad una stagione. L’inferno fu l’unica patria a cui rimase unito, l’unico punto d’identità perpetuo attraverso l’interminabile erranza lungo l’Africa coloniale, perseguendo assurdi affari e imprese impossibili che paradossalmente lo resero immobile, legato a una sofferenza che terminò con la sua vita.

Se la lettura della corrispondenza fa chiarezza su qualcosa, è che Rimbaud non morì a causa di un carcinoma (nonostante questa sia stata la diagnosi ufficiale e biologica della sua pena), ma a causa dell’impossibilità a proseguire sopportando il suo terribile dolore di vivere. La scrittura, che riuscì ad unirlo all’esistenza e gli conferì un nome postumo, non fu sufficiente a salvarlo dalla sua atroce melanconia, dalla sua follia itinerante, dal suo delirante ed agonizzante impegno in affari rovinosi, sopportando interminabili rigori a cui solo la morte ha potuto porre fine. La scrittura di Rimbaud non conquistò la funzione sintomatica di Joyce. Rimbaud fuggì ossessivamente dal freddo delle Ardenne, la sua regione natale. Il suo timore per il freddo prende in alcuni momenti un’inclinazione delirante, considerato che allo stesso tempo si confina in regioni in cui il calore bruciante è implacabile, una riproduzione dell’esperienza infernale che lo consuma. Nonostante ciò, la sola idea di far ritorno in Francia gli risveglia la paura, e questo timore lo associa al freddo, un freddo che senza dubbio non si limita alla poca clemenza del tempo, ma che è chiaramente un’evocazione dell’esperienza di morte legata alla prossimità con sua madre, e dalla cui ombra sinistra ha cercato di fuggire da sempre. Le lettere sono la testimonianza del modo in cui la follia ha sostenuto il genio letterario del poeta, ma anche del fatto che la sua creazione non servì per riparare l’annodamento fallito di R, S, e I.

Che cosa incontriamo in queste lettere, i cui destinatari sono alcuni amici e maestri di gioventù, e a posteriori sua madre e un buon numero di personaggi coinvolti nel suo peregrinare per i territori africani? Dalla prima all’ultima, sono l’espressione di una richiesta. Non si tratta di una supplica, o di una timida domanda, considerato che le sue richieste non si formulano mai da una posizione di umiltà, ma da un’esigenza che sembra superba, ma nella quale palpita una segreta disperazione. Rimbaud domanda tutto il tempo: libri, denaro, oggetti rari che a quanto pare gli sono imprescindibili per le sue strane faccende commerciali, lunghe liste di cose che enumera con meticolosità, commisurando dati e dettagli, prezzi e direzioni, nell’affanno di assicurarsi il compimento delle sue richieste. Fatta eccezione per alcune lettere iniziali in cui si apre alla sua concezione dell’arte poetica, e alcune cronache finali sulla conoscenza delle regioni africane, la maggior parte sono la scusa per formulare una richiesta, una richiesta il cui tono denota l’imperiosa urgenza di una necessità interiore che lo tortura, al di là dell’oggetto che all’apparenza reclama. Allo stesso tempo, la sua domanda lascia trasparire il modo in cui il poeta concepisce il suo destinatario, l’Altro della sua corrispondenza, sopra il personaggio reale a cui si dirige. Per Rimbaud, l’Altro è qualcuno che per definizione non può negarsi. È un Altro letteralmente obbligato a soddisfare la domanda con tutti i mezzi. Rimbaud, accanitamente, si mostra come qualcuno a cui tutto è dovuto e di fronte al quale l’Altro si erige come un debitore forzato incessantemente a rispondere.

Sua sorella Isabel, che lo accompagna nel letto di morte, è colei che meglio ci permette di decifrare il significato profondo di quella domanda infinità, quando nella sua lettera del 4 ottobre 1891, un mese prima della morte di Arthur, scrive alla madre: “Quando si sveglia, si dedica a guardare dalla finestra il sole che brilla sempre in un cielo senza nuvole e comincia a piangere, allo stesso tempo dice che giammai vedrà il sole da fuori […]. Ed è sempre così, una disperazione senza nome, un eterno lamento”.

La ferita aperta della sua gamba amputata è l’immagine viva di quella piaga interiore da cui ha sempre cercato di fuggire, ciò che lo fa scrivere, ciò che lo muove a reclamare invano qualcosa che mai arriva (si presti una speciale attenzione alla sua insistenza nell’enumerare le spedizioni frustrate), che non arrivò, che non arriverà mai a mitigare il dolore della follia.

 

(Traduzione: Maria-Laura Tkach)